
Il format del Running Park nasce per attrarre, guidare e fornire più sicurezza agli appassionati della corsa off road e dell’outdoor. Un progetto fortemente voluto da Vibram in collaborazione con il team di Maremontana. Abbiamo intervistato Jerome Bernard, sport innovation marketing global director di Vibram, per capire quali sono i presupposti del nuovo concept.
Il pubblico outdoor è cambiato: quali sono le caratteristiche del “nuovo” frequentatore dei sentieri?
Il pubblico non è cambiato, si è allargato. Si è solo aggiunta una nuova fetta che prima non frequentava la natura e non aveva nemmeno idea di farlo. Il Covid invece ha cambiato le carte in tavola, facendo evolvere la società in generale: quando è stato possibile tornare all’aria aperta, la gente è andata dove si sentiva libera di agire, di essere e di vivere.
Questo nuovo pubblico ha le caratteristiche del consumatore più che dell’utente di un territorio, si comporta in natura come quando va al supermercato a far la spesa o va a teatro: giunto alla sua meta, vuole trovare i servizi che si immagina per vivere la sua giornata in natura al meglio e in sicurezza, meno all’avventura come invece ha sempre fatto l’appassionato di outdoor. È una libertà relativa, guidata da parametri esportati dall’ambiente cittadino. Aziende e territori hanno quindi il dovere di interrogarsi su come rispondere a questa evoluzione, lavorando in sinergia. Il format running park ne è un esempio. Questo è un pubblico che va sensibilizzato, accompagnato e guidato per agevolare il suo vissuto in luoghi di sport nuovi in condizioni sufficienti di sicurezza.
Questo utente va guidato mentre vive le sue nuove passioni outdoor. Su quale aspetto secondo voi è più carente? Quali sono i rischi che corre?
Il nuovo pubblico non è abituato e non è in grado di gestire imprevisti tipici dell’ambiente naturale, non li conosce nemmeno. Un esempio è quando si passa dalla palestra di arrampicata alla falesia in natura: dalla sicurezza totale a un contesto potenzialmente ostile, si necessiterà di una guida e non tutti lo riconoscono. Un rischio legato all’evoluzione della comunicazione, ai social media in particolare: oggi sembra e appare tutto facile e accessibile, le persone pensano di poter replicare senza basi tutto quello che vedono. E non si tratta solo di neofiti. Ci sono infatti “esperti” dal punto di vista fisico e della preparazione che però in ambiente non segnalato, come può esserlo una competizione, non hanno le competenze per cavarsela da soli. Per questo le gare spesso impongono il materiale obbligatorio.
Che ruolo hanno quindi le aziende in questo contesto?
Questo è chiaramente un pubblico che dev’essere guidato, sensibilizzato ed educato e su questo le aziende hanno una grande responsabilità. Certo il nostro core è fare profitto e vendere prodotti. Ma dobbiamo anche fare cultura, sensibilizzare alle problematiche, aiutare i nostri consumatori potenziali, attuali e futuri ad aver la chiave per vivere al meglio gli sport outdoor e così fidelizzarli. Ci guadagniamo tutti se allarghiamo la base dei praticanti. Dobbiamo inoltre stimolare ad andare in posti nuovi e aiutare così anche la natura a respirare, evitando di accalcarsi negli stessi posti.
Intervista completa a pagina 25 di Outdoor Magazine 03-2022.
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