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La chiusura forzata di esercizi commerciali, scuole, enti ed aziende ha accelerato l’adozione dello smart working, un effetto collaterale positivo destinato a durare.

di Luca Mich

In tempi di emergenza si sa, regole, consuetudini ed abitudini in vigore fino a poco tempo prima, semplicemente saltano. Ciò che era considerato come intoccabile e radicato, diventa d’improvviso superato a volte quasi stantio, tanto che nella fase che segue, in ciò che viene dopo, alcune consuetudini del prima vengono facilmente percepite come prive di senso o quanto meno reinterpretabili con occhi nuovi

E’ il caso dello smart-working, o meglio dell’home-working visto che molti di noi (verrebbe da dire i più fortunati) nella lunga fase 1 dell’emergenza epidemia da Covid-19, hanno portato avanti il proprio lavoro da casa, nei propri salotti e camerette, improvvisando scrivanie e cattedre home-made alla velocità della luce. All’improvviso ciò che sembrava quasi fantascienza sino al giorno prima è diventato la prassi: mondo scolastico, aziendale, enti pubblici e non solo, davanti al collasso della quotidianità consolidata hanno sdoganato la possibilità di lavorare evitando di doversi recare sul luogo di lavoro fisicamente. Una pratica possibile e in molti casi auspicabile, sia per contenimento dei costi che per riduzione dello stress del lavoratore che per cogliere tutte le opportunità del lavoro in remoto anche prima dell’emergenza, ma che in realtà non era mai stata vista di buon occhio da istituzioni e datori di lavoro, legati anche comprensibilmente ai paradigmi di una società probabilmente precedente all’era in cui stiamo vivendo.

Una rivoluzione in parte attesa

E così migliaia di persone, e tra esse anche quelle che da sempre auspicavano modalità di lavoro più smart, vedi quelle professioni ad alto contenuto intellettuale quali marketer, creativi, manager, copywriters, pubblicitari, rappresentanti, grafici, designer social media manager, content creators, video makers, ma anche insegnanti e chi più ne ha più ne metta, si sono ritrovati in mano un pc portatile, accessi VPN a server e mail aziendali e tutto il necessario per poter proseguire serenamente il proprio lavoro in remoto. Una rivoluzione istantanea che ha ribaltato in pochi giorni i dogmi legati al vecchio luogo di lavoro, accelerando un cambiamento già nell’aria, soprattutto per le aziende multinazionali più evolute, ma mai davvero preso in considerazione dalle PMI italiane e men che meno da enti e scuole.

E allora com’è lavorare in homeworking? Le risposte potrebbero essere molteplici a seconda del tipo di lavoro, dell’atteggiamento personale, del tipo di azienda e naturalmente della tecnologia a disposizione. Partiamo proprio da quest’ultimo aspetto, la tecnologia: gli strumenti disponibili oggi per portare avanti il proprio lavoro in remoto sono numerosi, dai programmi in cloud, agli accessi ai server in remoto tramite VPN, alla miriade di app e programmi per le videoconferenza (Google Meet, Zoom, Microsoft Teams, Skype sono solo alcuni tra i più utilizzati e con funzionalità più o meno efficaci a seconda delle proprie necessità), il problema numero uno però, e sembra strano a dirsi, sono le connessioni alla rete. Sì perché se in azienda o negli istituti scolastici siamo tutti abituati a scaricare e caricare file alla velocità della luce, spesso a casa scopriamo che questo non è proprio l’aspetto più scontato. I più giovani in molti casi non hanno una rete wifi installata o non hanno a disposizione i giga necessari accontentandosi nel loro quotidiano delle offerte delle compagnie telefoniche classiche per scaricare e vedere film in streaming o leggere la posta. Le infrastrutture della rete inoltre non permettono, soprattutto in zone di provincia o montane, un accesso pieno alla banda di cui si necessiterebbe per avere una connessione stabile, ed ecco quindi che escono così tutti i limiti infrastrutturali del nostro Paese e delle sue zone più remote, giustificando anche in parte lo scetticismo dei datori di lavoro verso le pratiche di home-working nel pre emergenza.

Sarà questo il futuro di molte professioni?

Bicchieri mezzi pieni e mezzi vuoti dunque, come è normale che sia soprattutto in situazioni dove scelte veloci e poco pianificate portano a cambiamenti importanti sulla quotidianità delle persone e che, in questo caso, hanno pigiato sull’acceleratore facendoci intravedere il futuro di molte professioni. Se da un lato per ora rimane qualche impedimento strutturale, dall’altra ora la maggior parte di coloro che esercitano una professione d’intelletto, riescono a tenere senza troppi problemi ore di video conferenze, lezioni, webinar, meeting aziendali, senza necessità di prenotare sale riunioni, proiettori, spazi aggregativi con indubbi vantaggi quali: velocità e reattività, contenimento dei costi (di strutture, elettricità, trasporti), maggiore focalizzazione su compiti ed obiettivi che corrispondo a minori distrazioni sia in classe che sul luogo di lavoro, inferiore carico di stress emotivo (è provato da diversi studi che il rendimento del lavoratore in home-working è superiore a quello in ufficio a parità di orario), elasticità di orario. Esistono però anche lati meno positivi come la mancanza di interazione umana che tende ad alienare chi lavora sempre da casa, oltre allo stress causato dall’impossibilità di trasferire energia (positiva o negativa che sia) al proprio interlocutore. Meno problematici di quanto si pensi sono invece i presunti problemi di coordinamento che rendevano i datori di lavoro diffidenti rispetto allo smart working: è provato dall’esperienza pratica infatti, che la percezione di avere un minor controllo dei propri collaboratori, porta a fissare più riunioni di coordinamento, a far circolare e condividere maggiormente le scelte prese, ed in generale ad aumentare la mole di informazioni condivise, perché nulla può essere dato per scontato visto che banalmente nessuno può apprendere una decisione nei corridoi di un’azienda, alla macchina del caffè o da un collega al bar. Più focus dunque e più condivisione di informazioni, vantaggi non da poco di un metodo di lavoro visto in precedenza con scetticismo dai meno informati sull’argomento.

Ma allora visti i tanti vantaggi siamo destinati a lavorare da casa anche nel post emergenza?
E’ molto probabile che dopo questo lungo periodo di “test”, assisteremo a forme di lavoro sempre più ibride dove a beneficio di aziende/enti e lavoratori, si potrà combinare in maniera più “smart” (intelligente) appunto, lavoro sul posto di lavoro comunemente inteso e lavoro in mobilità, non per forza da casa quindi ma da bar, ambienti di co-working, giardini pubblici e così via.
Quello che dovrà veramente cambiare però è un duplice aspetto che poi sono due lati della stessa medaglia: la fiducia reciproca nella relazione datore-lavoratore, alla base del concetto si smart working e la dinamica stessa di organizzazione del lavoro non più basata sull’orario ma sugli obiettivi, i quali implicano a loro volta scadenze, momenti di reportistica e momenti di consegna del lavoro. Un aspetto questo che non va assolutamente sottovalutato e che dovrà auspicabilmente rivoluzionare la gestione delle risorse umane, il rapporto con il lavoratore e persino in molti casi, anche i sistemi di retribuzione.

Carne al fuoco ce n’è: l’ideale bilanciamento tra prestazione sul luogo di lavoro, con la sua sana dose di rapporti umani e di smart-working (che sia in home-working o in mobilità) sarà una delle sfide che il mondo del lavoro pubblico e privato ma anche quello della scuola dovrà saper cogliere. Ora che abbiamo visto il futuro, non possiamo certo far finta di niente. Indietro non si torna.